Recensione ‘La Valigia’:  sperimentazione e audacia in un testo novecentesco, al Parenti fino all’8 dicembre

La Valigia, con Giuseppe Battiston, diventa metafora della diasporica condizione umana portando in scena il suo atto d’amore verso un autore a lui molto caro, Sergej Dovlatov.

La valigia nasce dall’esigenza di portare in scena una condizione che parte dall’isolamento del covid vissuto nel 2020 che ci ha portati tutti ad essere un po’ il protagonista del racconto, lontano dalla sua casa, dai suoi affetti subendo distacco e spaesamento, come quello che abbiamo vissuto proprio in quegli anni da poco passati.

È infatti proprio da quegli anni che nasce il desiderio di riscrivere l’adattamento teatrale insieme a Paola Rota, con cui l’attore aveva già lavorato in passato.

Altre info sullo spettacolo, date orari e prezzi, sul nostro articolo di presentazione.

Una lettura molto interessante che parte da due protagoniste assolute: l’Unione Sovietica e l’America che hanno caratterizzato la storia della seconda metà del Novecento e che hanno messo in moto flussi migratori imponenti. Quindi l’elemento storico è fondamentale per creare la spinta che dà vita al testo e allo spettacolo. Una storia pervasa di malinconia anche se il testo inizia proprio con l’immagine di un’America dove proprio la malinconia non esiste o parrebbe non esistere, almeno per gli americani.

I soggetti sono la gente deteriorata: l’autore scrive che “i poveri non sono mai colpevoli” e questo che rimane un gesto di grande potere data dalla sensibilità di Dovlatov: malinconia e pietà, anche se ironica. Una pietà consapevole che la vita è anche questa.

Il pubblico si trova inconsapevole a giocare insieme a Battiston per scoprire che il sentimento di Dovlatov non è solo la libertà, ma qualcosa di più profondo che dove è arrivato non è così facile trovare. In questo continuo passaggio tra presente e passato, si articola lo spettacolo che usa come dispositivo narrativo e evocativo uno studio radiofonico, attingendo alla storia di Dovlatov giornalista e reporter.

Una prova d’attore incredibile, sentita e partecipata per Giuseppe Battiston. Un flusso di coscienza che coinvolge e sconvolge, attraverso anche un numero di parole al minuto davvero impressionante. Un monologo difficile che richiede un grande impegno da entrambe le parti: uno sforzo dal pubblico che ha bisogno di entrare in una storia non troppo lineare e dell’attore che deve tenere la tensione senza strafare.

Il linguaggio è a volte complesso, che comincia con raccontare storie e finisce per raccontarsi, intriso di malinconia e pietà, anche se è una pietà ironica. Una pietà consapevole che realizza che la vita è anche questa. Non è una trama comica, non ci si sganascia dalle risate, ma si sorride a volte di un sorriso amaro.

La scenografia, quindi, è lo specchio di questo testo, creando un luogo metallico, illuminando il tutto con luci nebulose. Lo spazio è uno spazio non realistico, una sorta di studio di registrazione, immaginando un dialogo tra lo scrittore e i suoi ultimi, con il mondo che ha lasciato, la sua Stalingrado.

La valigia racconta di quello che siamo, raccontato dagli oggetti che possono rimanere con noi, immagini di persone e ricordi. Ognuno di noi ha una valigia all’interno del quale ci sono le nostre vite rappresentate dai nostri oggetti personali, basta solo rispolverarla e guardarsi bene dentro.

Crediti foto: Filippo Manzini