C’è un luogo misterioso che abitiamo ogni notte. È fatto di immagini strane, volti familiari e scene impossibili. È il mondo dei sogni. Eppure, anche se li viviamo ogni notte, spesso li dimentichiamo, li mettiamo da parte, come se non avessero peso nella realtà.
Ma cosa succede se qualcuno li ascolta davvero? Se quei sogni vengono raccolti, custoditi, e trasformati in materia viva per il teatro?
È questa l’idea alla base dello spettacolo La banca dei sogni, in scena in questi giorni al Teatro Litta di Milano. Un progetto teatrale originale, profondo e sorprendentemente toccante, che si muove tra poesia e antropologia.
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Lo spettacolo nasce da un lavoro di raccolta sul campo: centinaia di sogni ascoltati e trascritti da persone di ogni età e provenienza. Non vengono interpretati, non c’è nessuna lettura psicologica: i sogni vengono accolti così come sono, come testimonianze pura di uno scenario intimo ma anche sociale. In questo, La banca dei sogni si ispira al lavoro degli antropologi Jean Duvignaud e François Corbeau, che negli anni ’70 e ’80 fecero qualcosa di simile in Francia, usando i sogni come strumento per leggere la società.
Qui però la scena diventa uno spazio di ascolto e condivisione. Sul palco, Laura Serena e Marco Trotta danno corpo e voce a questi sogni con grande misura e intensità. Non c’è mai voglia di stupire, non c’è narcisismo attoriale: c’è il desiderio sincero di restituire storie, che diventano materiale prezioso che non appartiene solo a loro.
Ogni scena è costruita con grande attenzione all’ascolto: non si cerca lo spettacolo nel senso tradizionale, ma una connessione profonda con il pubblico.
La scenografia è essenziale, quasi sospesa nel tempo. Le luci creano un’atmosfera intima. Pochi oggetti, ben scelti, diventano simboli di ciò che non si può dire a parole. Lo spettatore si ritrova immerso in un flusso poetico e continuo.
Il tono dello spettacolo è calmo, accogliente, mai retorico. I due attori non “recitano” i sogni: li restituiscono con sincerità, come se fossero ricordi delicati da trattare con cura. In platea si crea un silenzio attento. Ogni tanto si ride, altre volte ci si commuove. Ma soprattutto si sente una cosa preziosa: l’umanità.
C’è qualcosa di profondamente umano in questo spettacolo. Perché i sogni, per quanto assurdi o confusi, parlano di noi. Di quello che desideriamo, di ciò che ci manca, di quello che temiamo. E ascoltare i sogni degli altri – messi in scena con tanta cura – diventa un atto di empatia.
La banca dei sogni ci chiede di rallentare, di fermarci, di ascoltare. Dunque non è solo uno spettacolo ma un’esperienza, un invito a entrare in uno spazio sospeso, dove le barriere tra palco e platea si sciolgono, e dove ogni sogno diventa una piccola verità condivisa. E che, proprio per questo, ci resta dentro molto più di quanto immaginiamo.
Uno spettacolo delicato e potente che raccoglie sogni veri per costruire un racconto collettivo.