L’elezione di Papa Leone XIV segna un momento di svolta nella storia recente della Chiesa Cattolica. Non si tratta semplicemente del successore di Francesco, ma del primo vero passaggio di testimone in un’epoca che Papa Bergoglio ha profondamente trasformato. E se il nome scelto è un segnale, come sempre accade nel simbolismo pontificio, questa volta il messaggio è stato chiaro: è finita una stagione, ne comincia un’altra.
Quando Jorge Mario Bergoglio scelse il nome Francesco, rinunciò subito a qualcosa: non solo alle vesti più sontuose o all’appartamento papale, ma soprattutto a una visione della Chiesa come potere temporale e spirituale. Francesco fu, e resterà, il Papa della misericordia, della rinuncia e della prossimità. Un Papa che, al di là della fede, ha riposizionato il cristianesimo su un asse eminentemente etico, in cui la carità e la giustizia sociale non erano solo doveri del credente, ma valori umani universali. Per questo motivo, anche chi – alla maniera di Benedetto Croce – si dice “non credente ma cristiano”, ha potuto riconoscere in Francesco una guida morale.
Leone XIV invece sceglie un nome denso di storia e autorità. Leone I, che fronteggiò Attila e fu proclamato Magno; Leone XIII, che con la Rerum Novarum aprì la dottrina sociale della Chiesa al mondo del lavoro e della modernità. Non è un nome da poco, né scelto a caso. È un nome che evoca il ritorno alla solennità, alla centralità della Chiesa come interlocutore globale, e persino a una certa idea di forza istituzionale, quasi geopolitica.
Il nuovo Papa è stato vicino a Bergoglio: lo stesso Francesco lo ha elevato a cardinale, e le sue prime parole da pontefice – pace, carità, umiltà, dialogo – non si discostano molto da quelle del predecessore. Ma è nella strategia più che nella visione che si coglie il cambiamento. Se Francesco prediligeva la testimonianza attraverso la disobbedienza mite (basti pensare ai suoi continui scavalcamenti delle gerarchie vaticane), Leone XIV sembra voler ricomporre le divisioni nate all’interno della Chiesa durante il pontificato precedente, trovando un equilibrio tra chi chiede il cambiamento e chi rimpiange la Tradizione.
La sinodalità, tanto cara a Francesco, qui viene intesa non come apertura alla diversità, ma come strumento di unità. Non più un ascolto “dal basso” come cifra pastorale, ma un richiamo alla coesione e all’autorevolezza, anche attraverso la diplomazia e il ritorno di certe forme cerimoniali. Il compromesso tra le anime della Chiesa, dunque, potrebbe essere più strategico che ideale.
Ciò che sembra emergere con chiarezza è una volontà di riportare la Chiesa al centro delle dinamiche globali, non come potere, ma come attore attivo, persino interventista. Una Chiesa che:
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difende i propri valori e il proprio spazio quando viene attaccata;
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interviene laddove ci siano diritti da tutelare o crisi da sanare;
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pretende che l’Etica torni ad essere il parametro primo anche nella politica internazionale.
Una Chiesa che non si accontenta più di essere voce nel deserto, ma che si fa presenza visibile, e talvolta temibile. Perché, come ricordava il proverbio, “l’abito fa il monaco” – e Papa Leone pare volerlo ricordare con forza, ripristinando segni e simboli che Bergoglio aveva messo da parte.
C’è tuttavia una linea di continuità che non va trascurata, ed è quella della pace e del dialogo interculturale. Se la retorica delle “mura” e dei “nemici” ha segnato un certo ritorno dei populismi e degli imperialismi, Leone XIV sembra voler ribadire – proprio come Francesco – che la Chiesa non può accettare la logica dei blocchi e dei confini assoluti. La sua prospettiva, anche grazie a un certo pragmatismo “statunitense”, si distacca tanto dal trumpismo quanto dal putinismo: l’idea è quella di una pace non solo armata, ma disarmante, capace di scardinare i meccanismi di odio attraverso la forza morale.
Se con Francesco la Chiesa era diventata un rifugio per i fragili, con Leone potrebbe tornare ad essere anche una roccaforte per i valori non negoziabili. Meno tenerezza, più fermezza. Meno disarmonia apparente, più armonia istituzionale. Una Chiesa che esige rispetto – e forse anche timore – per tornare ad essere credibile. Non è propriamente continuità. È un altro capitolo, con nuovi strumenti, ma con lo stesso scopo: difendere l’umano.
Sebastiano Di Mauro nasce ad Acireale (CT) nel 1954 dove ha vissuto fino a circa 18 anni. Dopo si trasferisce, per brevi periodi, prima a Roma, poi a Piacenza e infine a Milano dove vive, ininterrottamente dal 1974. Ha lavorato per lunghi anni alle dipendenze dello Stato. Nel 2006, per strane coincidenze, decide di dedicarsi al giornalismo online occupandosi prima di una redazione a Como e successivamente a Milano e Genova, coordinando diverse redazioni nazionali. Attualmente ha l’incarico di caporedattore di questa testata e coordina anche le altre testate del Gruppo MWG e i vari collaboratori sul territorio nazionale.