‘L’Uomo Più Crudele del Mondo’: uno sguardo profondo sulla  crudeltà che nasce dall’odio e deriva dal dolore  – Recensione

Tutto si svolge in un anonimo ufficio, povero di arredi, quanto di accoglienza. Due soli attori: Paolo Veres (Lino Guanciale) imprenditore di una fabbrica di armi e un giornalista (Francesco Montanari), a caccia dei segreti di colui che è definito pubblicamente “L’uomo più crudele del mondo”, in scena fino al 7 aprile al Franco Parenti di Milano.

Altre notizie sullo spettacolo, date orari e prezzi sul nostro articolo di presentazione.

LA RECENSIONE:
Ci vogliono solo tre libri; sostiene Paolo, anche in questo contesto:
La bibbia, per contraddire ciò che sta per accadere, Dostoevskij per capire e un libro per bambini per ricordare. Questo particolare sembra scomparire nel corso dello spettacolo, ma avrà una sua ragione. Scelta originale e di grande talento dello scrittore e regista Davide Sacco.

Non esiste una interazione dialogica per conoscere e presentare il personaggio famoso a lettori affamati di gossip. Non c’è interesse a presentarsi in modo chiaro, quasi a sfatare il soprannome così dispregiativo. Una sola certezza: uno solo dei due uscirà vivo da questo incontro! Ma perché? 

Noi spettatori ci troviamo davanti a un crescendo emotivo, a una scossa tellurica nel nostro ben pensare… come può un uomo essere così tragicamente bestia: non animale (sarebbe troppo rispettoso), ma bestia!!

Impossibile non arrivare con la mente alla visione sociologica della finestra di Overton, attraverso la quale possiamo capire come ogni uomo/donna arrivi ad accettare anche le cose più turbi, se queste rientrano in un ordine sociale di condivisa accettazione; ne è esempio classico rinnegare il cannibalismo, per poi accettarlo se si pensa a una tragedia aerea, durante la quale i sopravvissuti si alimentano con i corpi di coloro che sono morti.

Qui siamo nella stessa situazione: si prende atto delle possibilità terribili che si fanno diventare proprie per andare a uniformarsi al tutto che spesso poi rinnega se stesso. “Bisogna andare diritto allo scopo, anche sacrificando cose personali” urla Paolo, tra le frenesie della sua vita… “Io non lascio nulla in sospeso”. Ed è così… Non sappiamo cosa abbia in sospeso, da sistemare, per trattenere il giornalista (scelto tra tanti) e aggredirlo verbalmente, scatenando reazioni a catena sempre più fuori controllo. L’alcool prima in solitario, poi condiviso, carica di munizioni pericolose questi due uomini che non sono nulla l’uno per l’altro. Ma è nella loro serata che trovano elementi che potrebbero allearli. Ne è un esempio la definizione di crudeltà, come atto di profonda condivisione; è vista come aggregante: da una parte i perseguitati e dall’altra i persecutori, entrambi schierati e certi della specifica appartenenza.

La finestra di Overton si spalanca sulla sessualità con un cadavere, sull’aggressione a chi non ci è gradito per motivi anche futili, sull’intolleranza razziale, sul fornire armi agli eserciti che pagano di più… “Siamo feccia” è un tatuaggio permanente che vuole cancellare l’affermazione straziante del giornalista “Io sono una brava persona, io sono una brava persona”… Perché vuole darci questa garanzia?

La proposta inquietante arriva dall’imprenditore: la richiesta di essere ucciso su compenso. che raddoppia nella trattativa. E la brava persona, come si definisce, accetta… che brava persona. Per soldi, si può uccidere!! E il crudele lascia il posto al suo assassino: preferisce morire, piuttosto che uccidere?

Il passaggio attraverso tutti i tipi di nefandezze che il genere umano può compiere è così vero, reale, più vicino di quanto la nostra mente potrebbe partorire nei momenti di razionalità e sensibilità attive e funzionanti. Il mostro è in agguato: le cronache lo confermano e lentamente diventano meno interessanti e perseguibili dal nostro senso di giustizia.

Festeggiano sulla ricchezza, sulla perversione, sui cattivi pensieri; Paolo rimane con la sua giacca, come potesse contenere i suoi segreti, dietro la maschera del crudele, del più crudele, figlio di un padre assassino e incomprensibile. Il giornalista si spoglia un po’ alla volta, come a spogliare se stesso delle proprie macchie di vita, compreso l’omicidio che potrebbe compiere per denaro. Non sono nemici, non sono amici… non sono: hanno perso la loro identità cognitiva, sono due pazzi che sfidano la vita e la morte.

Qual è la cosa più brutta che menzioneranno? La pedofilia, in ricordo di biondi capelli e occhioni azzurri… tragedia è l’urlo abominevole che precede lo sparo con il quale Paolo darà la morte al giornalista.

Non si può svelare il finale. L’inno a Sofia deve portarvi a teatro come terapia contro la violenza, l’autorizzazione al male, al genocidio, al femminicidio, alla pedofilia, all’abuso. Conoscere la malattia che può essere dentro a ognuno di noi è la via per controllarla e donare una vita, degna di essere tale, a se stessi e agli altri, con i quali vogliamo sconfiggere un genoma bestiale.

Un applauso super speciale ad attori e scrittore: tutto lo spettacolo esce dalla banalità e affronta in modo deciso, diretto, senza veli la dinamica dell’etica e della riflessione umana, dando origine a meditazioni profonde personali e sociali.
Grazie!!!